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È davvero la fine per l’epic fantasy? Di mercato, pubblico e originalità del fantasy classico in Italia

stato dell'epic fantasy in Italia
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Scoperchiamo il vaso di Pandora della letteratura fantastica partendo da una domanda sempre più frequente: c’è ancora mercato per l’epic fantasy, in Italia?

Da quando ho esordito con il mio romanzo epic fantasy in selfpublishing, questo è uno dei quesiti che ricevo di più, e anche durante i Lumiendì su Instagram la domanda si fa sempre più presente. Sembra, infatti, essersi acuito il timore di moltissimi autori italiani che, dopo il grande botto di questo genere dei primi anni Duemila, si sono visti precludere ogni strada a livello di pubblicazione tradizionale. La mia anima da marketer non può esimersi dal rispondere come segue: sì, c’è ancora mercato per l’epic (in Italia) e potenzialmente può esserci un mercato per tutto. Quello che dobbiamo considerare, però, è in che panorama si inserisce oggi il tanto amato fantasy classico. Sì, sto parlando proprio di quella brutta cosa chiamata “analisi di mercato”.

Voglio fare una premessa, a proposito dell’occhio con cui verrà affrontato questo editoriale: io ragionerò come professionista in ambito marketing ed editing, e non come autrice, per quanto descriverò, in parte, il mio percorso in questo sottogenere. Dunque l’analisi sarà molto lucida e a tratti affilata, perché di fatto è il mio lavoro. Analizzerò, infatti, l’andamento complessivo dell’epic fantasy in Italia nel nostro secolo, che per forza di cose sarà semplificato e non terrà tanto conto delle singole eccezioni, quanto del trend generale che si è verificato in questi anni.

Facciamo quindi un passo indietro e partiamo prima di tutto dal contesto storico di questo sottogenere che ha dato i natali a grandissimi capolavori della narrativa fantastica e che tra tutti è sicuramente quello più riconosciuto come “simbolo” dell’intera produzione fantasy, per capire cosa ha funzionato e cosa no.

 

L’ascesa e il tramonto dell’epic fantasy in Italia

Non mi spenderò troppo a parlare di come il fantastico, in Italia, sia in generale considerato letteratura di serie B. Lo sappiamo, e questo influisce in modo importante sulle potenzialità di pubblicazione sul numero di lettori raggiungibili. Detto ciò, quello che ci interessa vedere è in che modo si è affermato il fantasy epico in Italia e come, in parte, è tramontato.

Attenzione: non parlerò del fantasy epico dalle origini, ma, come detto, solo dell’andamento degli ultimi anni nel nostro Paese. Altrimenti dovremmo fare un discorso che nasce dalla letteratura latina, passando poi per Dante Alighieri, Torquato Tasso e Italo Calvino.

Potremmo definire il mercato italiano dell’epic una bilancia perfettamente equilibrata:

  1. Da un lato abbiamo i grandi nomi internazionali della narrativa epic fantasy adulta, coloro che hanno reso il fantasy classico uno specchio della realtà in un mondo alternativo, costruendo veri e propri mondi in cui vivere disgrazie e virtù. Stiamo parlando di autori della caratura di J.R.R. Tolkien, Steven Erikson, Ursula LeGuin, Robin Hobb, Robert Jordan, per citarne alcuni.
  2. Dall’altro, abbiamo i nuovi autori indirizzati a un pubblico più giovane, ossia autori che hanno preso l’eredità e i modelli narrativi dell’epic fantasy adult che ci sono stati lasciati dai grandi nomi e li hanno riadattati a un pubblico più young adult. Su tutti, Christopher Paolini e l’italiana Licia Troisi.

Leggendo con attenzione tra le righe, vediamo come il fantasy epico sia considerato un retaggio di derivazione anglosassone (insomma, non è proprio nostrano), il che ha determinato gran parte della visione di questo sottogenere e anche della sua costruzione narrativa che, nel tempo, è rimasta quasi del tutto invariata. In secondo luogo, vediamo come questa impostazione sia nata e abbia proliferato nel secolo scorso (con Tolkien anche prima, in realtà) con un approccio molto adulto e articolato da un punto di vista delle tematiche e della costruzione narrativa, ma che per i lettori di oggi, soprattutto a livello stilistico, può risultare vetusto sotto certi aspetti.

L’apprezzamento e la proliferazione di questo genere si sono trascinati fino al nostro secolo, dove poi è stato rielaborato in chiave giovanile. Autori come Troisi e Paolini si rivolgono a un pubblico young adult, talvolta sfiorando quasi il middle grade, con strutture semplificate e adattate al nuovo pubblico di riferimento a livello narrativo e di stile che ne hanno consentito il successo enorme anche nel nostro paese, soprattutto dopo l’uscita dei film de Il Signore degli Anelli.

Se ci aggiungiamo anche gli altri media narrativi, quali i videogiochi, i film e le serie TV, vediamo come l’epic sia stato ampiamente affrontato a cavallo tra ben due secoli! Soprattutto, vediamo come sia stato polarizzato da due target che si potrebbero definire agli antipodi: l’adulto e l’adolescente.

…e nel mezzo cos’è successo?

La risposta è semplice e, ahimè, occorre analizzare la realtà con sguardo lucido. Se da un lato la produzione dei grandi nomi ha abituato il pubblico a una qualità eccelsa e gli editori a bestseller astronomici, dall’altro la pubblicazione dei nuovi autori ha dato una spinta verso una nuova domanda per questo genere, più fresca, più contemporanea, ma che purtroppo è sfociata in produzioni di bassa qualità. Non certo per una questione di pubblico di riferimento, quanto per quello che oggi chiamiamo “cavalcare l’onda del trend in preda all’entusiasmo”.

Per un genere di per sé complesso, di cui gli stessi editori italiani hanno poca contezza e specializzazione, questa deriva ha mandato in cortocircuito gran parte delle opportunità che si erano aperte all’inizio degli anni Duemila.

Va da sé che qui si è venuto a creare – anche – un problema di target e di aspettative.

Se già il pubblico di lettori italiani di narrativa fantastica è esterofilo, nell’epic lo è anche di più. Pensate anche solo a dei nomi italiani di high fantasy. Chi vi viene in mente? Oltre a Licia Troisi, probabilmente nessun altro.

Ricordate? Si tratta di un genere nato in terra anglosassone, la stessa che ha sfornato i grandi nomi di cui sopra. Il problema è che, al netto di particolari estimatori dell’epic super classico, che sono per lo più adulti, molti lettori più giovani nella fascia 18-30 anni lamentano degli elementi che lo rendono poco digeribile. Alcuni esempi sono: stile troppo aulico, muri di testo, flusso informativo troppo ricco in poche pagine, divagazioni, lentezza del ritmo (sì, anche se ci sono le battaglie).

Il fatto è che, a livello internazionale, i nuovi autori di high fantasy (es. Brandon Sanderson) hanno più o meno adattato la narrazione a una percezione più moderna. In Italia, invece, c’è ancora la tendenza alle strutture narrativo-stilistiche ereditate dai testi miliari che buona parte del pubblico moderno fatica a digerire. Beninteso, non per tutti è così, ma come premesso sopra ci tocca parlare di grandi numeri e non dell’eccezione. In sostanza, tendiamo a scimmiottare un modello che ha avuto il suo successo ma che oggi, in gran parte delle situazioni, risulta inadatto.

Chi, invece, è sempre stato abituato alla narrazione dei grandi nomi, è un pubblico adulto che poco tollera le derive novizie che, purtroppo, hanno cavalcato l’onda senza consapevolezza, decretando in buona parte il tramonto del genere in Italia.

 

Ma, quindi, davvero non c’è speranza?

Certo che c’è. Ma con il giusto approccio.

 

Gli epic fantasy hanno davvero esaurito il loro potenziale creativo?

La produzione, sia nostrana che internazionale, esplosa dopo l’intervento dei nuovi autori ha portato anche a un abuso dei tropi tipici dell’epico, tanto da trasformarli in cliché. Attenzione: un tropo dà un indirizzo narrativo, crea aspettativa ed è integrato nella narrazione, un cliché è un tropo che non ce l’ha fatta, nel senso che viene piazzato nel romanzo dall’autore senza venire rielaborato in relazione al contesto della storia. Questo abuso narrativo ha portato molti alla convinzione che questo sottogenere non abbia nulla di nuovo da raccontare. Sì, insomma: il prescelto l’abbiamo visto, l’arma magica pure, la compagnia di eroi e l’eroe imbattibile anche. Poco importa che questi tropi esistano anche negli altri sottogeneri del fantastico, rimane il fatto che a esserne uscito sconfitto risulti soprattutto l’epico.

Come scrivevo sopra, le opportunità ci sono, ma serve il giusto approccio. L’high fantasy corrisponde alla creazione di mondi nuovi da zero e da un mondo si possono creare un sacco di storie diverse, sempre nuove e originali.

E come sempre, l’originalità non dipende dal cosa (ogni storia è ormai stata scritta), ma dal come.

L’approccio ottimale per recuperare campo in questo genere maltrattato, quindi, è quello di spogliarsi dei modelli narrativi abusati non tanto abbandonandoli in toto, ma inserendoli in dinamiche di worldbuilding e narrative coerenti. Per fare un esempio su uno dei tropi più usati e, nell’ultimo periodo, più odiati: il Prescelto (Chosen One) risulta più credibile quando la predestinazione è costruita secondo logiche precise e funzionali al mondo e alla narrazione, non quando è inserita solo “perché sì” o “perché devo rendere speciali i protagonisti”.

Si tratta, quindi, di partire sì dagli elementi che rendono un romanzo un fantasy epico, ma di essere in grado di discostarsi dalle scorciatoie narrative che spesso portano i più inesperti ed entusiasti a creare storie che sono la copia di tante altre. Scorciatoie che spesso si manifestano attraverso: poca perizia e accuratezza nel porre limiti al worldbuilding e al sistema magico; caratterizzazioni dei personaggi stereotipate, dei classici eroi senza macchia o dei supercattivi che vogliono conquistare il mondo; intrecci strutturali ripetitivi o inadeguati alle finalità della storia (e delle singole scene); riadattamento di campagne di giochi di ruolo senza considerare le amenità della prosa scritta; continuo uso di strutture stilistiche e strutturali superate.

Non è reinventare le razze classiche (elfi, nani, ecc.) che può portare un epic alla ribalta sul mercato, ma lavorare a livello strutturale profondo.

Cosa si vuole raccontare con il proprio fantasy epico? Da questa semplice domanda nasce tutta la progettazione narrativa del worldbuilding, dei personaggi e, ovviamente, delle vicende della storia. L’epic “senza speranza” non si fa questa domanda, mentre quello che ha ancora tanto da raccontare, perché ce l’ha, parte proprio da qui.

Prendete questi romanzi e analizzateli (ahimè, un articolo intero non mi basterebbe per farlo, ma scrivere è anche studiare, quindi fate questo compitino): Mistborn di Brandon Sanderson, Il priorato dell’albero delle arance di Samantha Shannon, La quinta stagione di N.K. Jemisin. Tutti hanno di fondo un modello epic tra i più classici e “già visti”, ma raccontano messaggi totalmente diversi tra loro. Come lo fanno? Con mondi e personaggi che differiscono fortemente gli uni dagli altri, che sono costruiti attorno a quel messaggio e che quindi lo veicolano senza bisogno di scriverlo a mo’ di ingresso autostradale (per il messaggio XYZ, prendete l’uscita a destra).

Spoiler riguardo a questi romanzi: pur non facendo i numeri di altri sottogeneri del fantasy, in Italia hanno venduto e vendono molto bene per gli standard.

Chiaro è che questo dipende anche dalla capacità del singolo autore di saper mettere in scena tutto questo, e qui veniamo all’altro punto d’attenzione che fa la differenza per qualsiasi buon libro. Conoscere gli epic che hanno fatto la storia è importante per comprendere a fondo il modello narrativo di questo genere e, di conseguenza, come si può seguire dando la propria cifra stilistica, nonché come è possibile discostarsene.

 

L’epic fantasy vende ancora, al pubblico giusto e con il linguaggio giusto

Nella mia esperienza di autrice self, dove i miei competitor principali sono i mostri sacri del genere, gli epic young adult e un mercato prevenuto, ho venduto 800 copie di Liwaria. Impossibile!, direte voi. In realtà è stato possibile eccome, ma con un segreto.

Ho parlato al pubblico giusto, nel modo giusto.

Essere scrittori abili, al di là del livello tecnico, presuppone sapersi immedesimare con i propri lettori. Nessun libro è per tutti, e nemmeno gli epic fantasy lo sono, neanche all’interno della nicchia di estimatori.

Occorre, quindi, essere preparati a conoscere bene la propria storia, riuscire a far immergere i lettori, riuscire a farli immedesimare e, soprattutto, parlare con un linguaggio che si adatta a loro. Non significa appiattire il proprio stile, ma riconoscere i limiti e le evoluzioni della scrittura e delle abitudini di lettura, per dare il tono migliore alle proprie storie.

In particolare, significa rendere umano il proprio libro, a partire dai personaggi. Nel mio caso, ad aver funzionato non è solo il worldbuilding della saga, nel quale ho rielaborato i tropi più classici del genere cercando nel mio piccolo di ribaltarli, ma il fatto di dare rappresentazione umana dei personaggi e delle tematiche, con un intreccio che unisce un disegno più grande in grado di giustificare le scelte narrative.

Ho parlato di antropocentrismo, di egoismo, di predestinazione come lotta costante delle persone, e ho cercato di farlo con uno stile scorrevole e immersivo che non andasse a ricalcare, appunto, quegli elementi oggi stucchevoli al pubblico di riferimento. L’ho fatto tenendo in tutto e per tutto il modello base dell’high: secondary world, spada magica, profezia, prescelta, razze, poteri e compagnia di eroi.

Tutto questo l’ho fatto perché ho ascoltato i miei potenziali lettori e ho selezionato un pubblico. Se avessi tentato un approccio più adulto (la mia saga è per new adult), probabilmente avrei potuto permettermi un certo grado di focalizzazione su aspetti ritenuti noiosi da quello che è invece il mio pubblico attuale.

L’ho fatto con umiltà, senza pretese di rendere vendibile una storia che non avesse un suo messaggio dietro. Ho studiato e ho lavorato sulla promozione a lungo, e ho riconosciuto i miei punti di forza e i miei limiti (e quelli della mia storia).

Sì, la promozione. Perché purtroppo la reticenza del mercato, soprattutto da parte della media degli editori che non conoscono e non considerano l’high fantasy, rende necessario farsi conoscere, dimostrare che la propria storia è diversa dalle altre per davvero.

L’abbiamo visto anche nell’analisi sopra. Al netto di opere come quelle di Brandon Sanderson o del Priorato dell’albero delle arance, di solito gli epic oscillano tra l’adult (di difficile realizzazione, con un pubblico molto demanding e abituato alle opere magne) e lo young adult (più abbordabile, ma che comunque non è il target per cui tutti vogliono scrivere): ciò significa che la fascia che sta in mezzo è pressoché inesplorata o, comunque, ancora poco conosciuta.

Senza pretesa di aver sfornato un capolavoro, ma credendo nei propri romanzi e lavorando in maniera certosina per garantire qualità e ricercatezza, secondo ciò che vogliamo raccontare. Strano, vero? Si può fare marketing anche senza snaturare la storia.

 

Quindi, vale ancora la pena scrivere epic fantasy?

Con tanto lavoro, sia lato narrativo che lato promozionale. Del resto, abbiamo un intero mercato da rieducare per riportarlo verso questo genere. Soprattutto considerato che, in altri media narrativi, l’epico è quasi sempre il più apprezzato.

Quindi, sì. Proprio per la presenza di tutte queste barriere e per i trascorsi in Italia, scrivere epic fantasy deve valere la pena, per cambiare le cose. E perché ha ancora tantissimo da raccontare, di mondi e visioni, tematiche e persone, in una lettura profonda che avviene soprattutto quando crei mondi nuovi in cui si proiettano le ansie, le speranze e le paure del nostro mondo. Basta solo capire come farlo al meglio, con consapevolezza!

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Giada Abbiati
Giada Abbiati
Giada Abbiati è autrice fantasy, editor e consulente marketing per autori. Dopo il lavoro nel marketing territoriale, si dedica ai libri aiutando gli autori a scrivere e promuovere i propri romanzi come professionista freelance. Ama divulgare sulla buona editoria, viaggiare e i gatti. Dal 2022 collabora con Rotte Narrative di Livio Gambarini, importante realtà formativa di scrittura, come editor interna. Nel 2021 esordisce con l'epic fantasy Liwaria, saga in selfpublishing che si attesta nella top 100 fantasy epica su Amazon. Nel 2023 è in arrivo il secondo volume.

Un commento

  1. L’analisi dell’epic fantasy in Italia, come delineata nel post, offre una panoramica di un genere in continua evoluzione. La sua ascesa e il successivo declino riflettono non solo le tendenze del mercato letterario, ma anche un dialogo più ampio tra autori e lettori riguardo al valore della narrativa fantastica.
    Il genere, con le sue radici profondamente ancorate nelle opere di maestri come Tolkien e LeGuin, ha trovato terreno fertile in Italia grazie a voci come Troisi e Paolini. Tuttavia, la proliferazione di storie che si affidano troppo strettamente ai tropi consolidati ha portato a una crisi di originalità, lasciando i lettori alla ricerca di qualcosa di più sostanziale.
    La sfida per gli autori contemporanei di epic fantasy non è semplicemente evitare la ripetizione di formule stanche, ma tessere narrazioni che parlino al cuore umano con autenticità e innovazione. Come indicato nel post, autori come Sanderson e Jemisin hanno dimostrato che è possibile onorare la tradizione del genere mentre si esplorano nuovi orizzonti narrativi.
    Per rinnovare l’epic fantasy in Italia, è necessario un impegno consapevole verso la creazione di mondi e personaggi che riflettano le complessità della condizione umana. Questo significa abbracciare la diversità, sia in termini di tematiche che di rappresentazioni, e costruire ponti tra il fantastico e il reale che invitino alla riflessione.
    In conclusione, il post solleva questioni pertinenti sull’epic fantasy che meritano una considerazione approfondita. Non è sufficiente produrre il familiare; è tempo di aspirare all’eccezionale, di nutrire l’immaginazione con storie che sfidano e arricchiscono, che elevino il genere oltre i confini del già noto verso l’inesplorato.

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